L'imprenditùr, secondo me

Buongiorno,

alcuni giorni fa dalle mie parti c'è stato il suicidio di un noto imprenditore, apparentemente dovuto alla situazione di difficoltà finanziarie nelle quali si è avvitato il gruppo di cui era stato fondatore una cinquantna di anni fa e che recentemente si era ingrandito, una acquisizione dopo l'altra, uno stabilimento dopo l'altro, sino a diventare una multinazionale di riferimento nel settore delle macchine agricole.

Oggi, con tutto l'imbarazzo che un suicidio mi detta, vi scrivo come ho visto la cosa dal mio punto di vista e mi spingo a (ri)fare alcune riflessioni sulla natura di molti imprenditori (in particolare quelli del Nord Est), sulla loro adeguatezza ad affrontare le nuove realtà dei mercati e sul mito da anni cucito loro addosso.

La persona di cui parlo aveva iniziato la propria attività presso quello che è rimasto un suo vicino / concorrente, che aveva lasciato per mettersi in proprio negli anni '60 iniziando nella stalla di famiglia come nelle migliori tradizioni del caso.

Per decenni la ricetta è rimasta quella tipica del Nord Est: molto lavoro e molta attenziona alla qualità di un prodotto relativamente semplice in una realtà imprenditoriale dove tutto ruota attorno al Paròn.

La parziale anomalia di questo caso, rispetto alla maggior parte delle realtà italiane sta nel fatto che questo paròn riesce a vedere un po' più in là della maggior parte dei suoi colleghi e riconosce la necessità di continuare a crescere nelle dimensioni aziendali, di continuare ad innovare il prodotto e di avere un comportamento rispettoso nei confronti dei dipendenti, con i quali il rapporto sembra essere buono.

Il titolare inizia quindi un percorso di acquisizioni ed aperture di filiali in Italia ed in giro per il mondo, ma, come la maggior parte dei suoi omologhi, non riesce a rinunciare alla propria centralità in azienda, nemmeno quando le dimensioni e la complessità della stessa e dei mercati probabilmente lo imporrebbero.

Le prime avvisaglie dei problemi forse arrivano quasi silenziosamente alcuni anni fa, con l'assunzione come A.D. di un impostore pregiudicato (per appropriazione indebita, per di più), smascherato per la sua incompetenza dai dipendenti della ditta. Il rapporto di lavoro, deciso personalmente dal titolare, si risolve tra carte bollate e richeste incrociate di danni milionari. Ma, complice il fatto che la ditta continua ad espandersi, a veder crescere i fatturati e ad aprirsi a nuovi mercati persino in periodo di crisi, la cosa sembra non venga vissuta come un campanello d'allarme, ma più probabilemente come uno di quegli inevitabili errori che possono capitare a chi lavora.

In realtà la veloce crescita porta fuori controllo i conti dell'azienda, i nuovi impianti e le nuove filiali costano e, malgrado le banche concedano credito, l'indebitamento sale, sino a quando i creditori chiedono il rientro dal debito e al titolare viene tolto il potere di firma e vengono imposti dei manager esterni.

La storia finisce purtroppo male, pochi giorni fa, la mattina presto, prima dell'apertura dell'impianto,con un colpo di fucile esploso in solitudine in ufficio e chiude un percorso in cui il protagonista sembra, come molti suoi colleghi, non essersi reso conto di aver abbandonato il campo in cui riusciva ad operare bene, con competenza e passione e dove era percepito come un gigante, per sconfinare dove le sue capacità non erano più sufficienti.

Un gigante i cui piedi erano diventati d'argilla, che avrebbe avuto forse una chance in più di correggere il proprio percorso se non fosse stato immerso in un ambiente che lo voleva e rappresentava sempre e comunque infallibile, capitano coraggioso, eroe italiano.

Ed è una storia che, fortunatamente con l'eccezione del finale tragico, è emblematica di molte nostre storie imprenditoriali, anche se tuttora la figura dell'imprenditore rimane troppo spesso a sproposito ammantata dall'alone mitico della persona che infallibilmente promuove progresso e benessere (1).

Eppure, guardandoci attorno, vediamo in ogni dove aziende che si chiamano “Nuova XXX”. 

Dove il “Nuova” iniziale significa spessissimo che la ditta è erede di una ditta precedente, fallita malgrado una qualità del prodotto che giustifica il voler ricordare il marchio per non perderne i clienti, ma andata in crisi di conseguenza realisticamente per problemi gestionali. Quelli che l'imprenditore non era stato capace di risolvere come avrebbe invece dovuto e che, tracimando nel fallimento, si sono riversati su dipendenti, fornitori e clienti.

Ciao

Paolo

(1) Principalmente quando, senza alcuna esperienza in materia, decide di "scendere in campo" nell'agone politico

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